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giovedì 20 gennaio 2011

Mattoni rossi


Un’ultima passata di straccio sull’uscio, la gonna sollevata dall’orlo e fermata alla cintura perché non s’inzuppi. E la targa d’ottone! Ancora una mano di lucido, è meglio. Tutto dev’essere perfetto.
È il 1900 e la festa d’inaugurazione della casa sarà ricordata per anni. La consegna è avvenuta da qualche settimana, e la famiglia che l’abiterà ne ha preso possesso da soli tre giorni, il tempo necessario per raggiungere la «Nuova Arteria» dalla campagna. Non è stato facile convincere nonno e nonna a lasciare l’antica dimora, ancora di meno lo è stato staccare dai ganci in cantina tutti i salumi che nonno cura come fossero figlioli suoi. Spiegare a nonna che intravedere la casa più vicina a un chilometro non vuol dire che da lì la vedranno mentre si toglie i vestiti nel segreto della camera da letto, poi, è un’incombenza che è valsa la pesca del bastoncino più corto. Quanto è bella, però, casa nuova! I mattoni rossi splendono al sole, le finestre sono profilate di bianco e le persiane di legno, nuovissime, hanno il colore caldo del legno scuro. Il capo famiglia non si risolve a rientrare, e passeggia avanti e indietro nel bel giardino, fermandosi di tanto in tanto ad ammirare la sua creatura con i pollici infilati nel taglio del panciotto, un sorriso fiero e una gamba un poco flessa sul ginocchio. È stata tutta opera sua. La decisione di lasciare la campagna per andare incontro al progresso, l’idea di investire sul futuro ha trovato d’accordo tutta la famiglia. Eccezion fatta per i nonni, ovvio. Per convincere nonna è stato necessario portare con sé il grande paiolo della polenta e tutte le galline, nessuna esclusa, e regalarle un angolo di giardino per allestirvi un nuovo pollaio; in quanto a nonno, già s’è parlato di tutti i suoi prosciutti e salami.

La festa comunque è stata memorabile! Tanti invitati entusiasti della nuova casa, un po’ d’invidia scaturiva dai loro complimenti troppo sorridenti. Le donne di casa si sono impegnate al massimo per essere bellissime, riuscendoci. La figlia più grande, diciotto anni, ha incontrato in quella occasione colui che sarebbe diventato suo marito e padre dei suoi quattro figli: tre maschi e una femmina.

Nel 1923 un avvenimento importante ha coinvolto la famiglia: è stata aggiunta la stanza da bagno alla casa. La rete fognaria di nuova concezione ha raggiunto anche l’Arteria Nuova, come chiamano quel pezzo di città, anche se città non è ancora, e finalmente papà ha potuto dare il via al progetto: s’è aggiunto alla pianta originaria della casa un nuovo corpo, che davvero la rovina un po’, ma è tanto comodo non doversi scapicollare fino in fondo al giardino, specialmente quando è inverno e il ghiaccio crocca sotto gli stivali!

Piano piano la casa ha cominciato a somigliare ai suoi abitanti; con lo scorrere degli anni entrare in cucina era sempre più come guardare in faccia la mamma; l’ordine assoluto richiama alla mente i suoi capelli castani con la scriminatura perfetta nel mezzo e raccolti in una crocchia rotonda che pare fatta col compasso, il profumo di pulito è il suo profumo di pulito. La stanza delle ragazze è tal quale a loro: ovunque nastri colorati per farsi belle, sottane lasciate penzolare con noncuranza sui pannelli del paravento; il modellino in compensato della locomotiva a vapore che il figlio maschio sta costruendo in camera sua ha occupato quasi tutto il pavimento e le urla di nonna si levano alte ogni qualvolta la povera, ostinata donna si presenta con una scopa per tentar di pulire quel macello. Papà trascorre la maggior parte delle sue giornate nello studio, e il suo aroma di acqua di colonia impregna piacevolmente i tessuti di poltrone e tende. Sentire la tosse di nonno, che spande lo stesso odoraccio del suo trinciato da pipa, provenire dalla cantina, è diventa col tempo una cosa normale. E per tanto tempo dopo la sua morte, la prima avvenuta in quel nucleo familiare, a tutti è sembrato di continuare a sentirla, anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di parlarne agli altri.

Forse succede in tutte le case che i primi abitanti lascino una traccia importante del loro passaggio, e chiunque venga dopo deve per forza assorbire un po’ delle vicende che in quelle stanze, in quei corridoi, si sono svolte.

Fino al 1950 la casa ha ospitato ben volentieri i discendenti della famiglia originaria, ma anche questi sono spariti nel tempo: qualcuno è fuggito durante la guerra, altri sono partiti subito dopo per cercare fortuna in paesi meno martoriati. La casa è sopravvissuta ai bombardamenti, i mattoni sono sempre rossi, forse un po’ sbiaditi ma neanche tanto. Le persiane sì, avrebbero bisogno di una bella riverniciata, e la nuova famiglia che la prende in affitto da un nipote dei proprietari precedenti pensa bene di dare una mano di verde squillante. Chissà che brivido di ribrezzo avrebbe causato quel colore a papà!

I nuovi occupanti decidono dapprima di rimuovere i ganci dal soffitto della cantina, ma ci ripensano: possono tornare utili per appendervi i mazzi di erbe aromatiche che la mamma coltiva con cura, raccoglie e fa seccare. In cucina trova spazio la lavatrice, nuovo portento della tecnica che fa risparmiare un sacco di tempo e fatica alla mamma; tempo e fatica che lei impiega per rammendare i calzini e pulire meglio il resto della casa. Questa famiglia ha una sola figlia, la quale non si sposerà a causa di un sentimento che lei stessa definisce “la chiamata” e che la porterà, con grande orgoglio da parte di mamma e papà, a prendere il velo appena possibile. A essere sinceri si è sparsa una voce nelle case vicine: c’è chi è pronto a giurare che la ragazza abbia ricevuto “la chiamata” direttamente dal calcinaccio che si è staccato piombandole sulla testa, capostipite di tutti i calcinacci della casa, poco prima di recarsi in chiesa in un’assolata domenica di giugno. Da suora, anni dopo, assisterà in quella casa la madre malata e rimasta sola; sarà uno dei periodi più tristi e la desolazione di quei giorni sembrerà inerpicarsi sui muri fino a ingiallirli.

Negli anni Settanta, verso la fine, la nuova famiglia che occupa la casa è benestante: ha comprato tutto, ristrutturato tutto e riempito le stanze di argenteria e oggetti costosi. Il giardino che aveva ospitato le galline di nonna non esiste più; la Nuova Arteria è stata inglobata nella città, le case vicine sono davvero vicine, ormai. L’incubo di nonna di essere spiata si è infine realizzato.
Una notte quella famiglia sperimenta la paura. Qualcuno riesce a entrare, stordire il cane con un bocconcino al sonnifero e arraffare quello che può. Il padrone di casa sentirà i rumori, verrà giù per vedere che sta succedendo e si farà bersaglio di un colpo di pistola alla gamba destra, esploso da uno dei ladri prima di fuggire. Tanto sangue, tanta paura che possano tornare, la sensazione di non essere più sicuri neanche in casa propria.

Perché si abbandona una casa? I motivi sono mille e nessuno. È il 1996, la casa sta per compiere i suoi primi cento anni, ma nessuno lo sa. Dopo una decina d’anni di abbandono, le porte si riaprono per ospitare un branco di giovani colorati, allegri, che giocano a preoccuparsi per le sorti di questo o quel paese dell’America Latina fumando erba e strimpellando chitarre. I capelli lunghi, i canti fino a notte fonda, tutto quel baccano vengono mal sopportati da chi abita lì accanto. Il centro sociale occupato è sgombrato dalla polizia dopo appena due mesi, e la casa rimane sola, vuota.

Oggi è ancora lì, pericolante. Qualche vetro è stato rotto, una vecchia persiana ha ceduto da un lato e così, sghemba, adorna tristemente una grande finestra. Il corpo che aveva costituito la novità della stanza da bagno in casa è scrostato, le scale che portano all’ingresso sono invase da erbacce e muschio.

Sul cancello hanno legato un avviso col fil di ferro: 
Casa vuota, non mettere posta e publicità. Con una “b”.         

mercoledì 12 gennaio 2011

Tango

Il corniciaio, uomo lungo lungo, smilzo e pelato, che non ama gli animali, vanta un negozio a tre vetrine: una per mostrare il laboratorio zeppo di cornici in legno scuro, chiaro, verniciato o grezzo; le altre due per esporre la merce in vendita. 
Quadri, poster e qualche cornice vuota. 
Se lo sguardo riesce a non stancarsi vagando tra la folla di grattacieli newyorkesi riprodotti in prospettiva, in bianco e nero, di sguincio o in lontananza; o tra i poster raffiguranti enormi, succose, rossissime ciliegie sensualmente trattenute tra enormi, succose, rossissime labbra femminili, allora è possibile scorgere l’unico quadro per cui varrebbe la pena di avere a che fare con quest’uomo antipatico. 
La scena si svolge in primo piano, senza alcun panorama a svelarne la collocazione, sotto un cielo plumbeo. Può essere un molo, avrebbe senso. Quattro figure riempiono la tela, ma di nessuna di queste si scorge il viso. La figura di sinistra è un maggiordomo impeccabile, quasi lucido, la cui postura è però rovinata dal vento imperioso che spazza l’intera scena. Tenta con scarso successo di reggere un ombrello, piegato e storpiato dalla tempesta. 
La figura di destra è una cameriera grassoccia, con il vestito nero e il grembiule bianco, e con la crestina immacolata sulla fronte. Anche per lei trovarsi in quella situazione è fonte di disagio, anche il suo ombrello si piega in avanti a causa del vento che la investe da dietro. Il vestito le si attorciglia alle gambe piegate, ed ella si copre il viso come può. 
In mezzo, una coppia è avvinta in un tango. Lei è di spalle, fasciata da un vestito rosso fuoco lungo fino alle caviglie; ha i capelli raccolti sulla nuca, è l’immagine dell’eleganza. Lui le cinge la vita, stringendola fino a sembrare un unico essere. Colpisce una cosa, più di tutte: i due ballerini non sono neppure sfiorati dal forte vento che strapazza gli altri, il loro passo è sospeso nel tempo. 
L’atmosfera del dipinto rapisce, forse proprio per questo contrasto di azione sullo stesso piano. I colori sono forti, netti: il rosso del vestito è il punto focale, l’intera figura della donna sembra avvitarsi verso l’alto. 
E mentre ci si perde a osservare lei e il suo cavaliere, e la coda dell’occhio riesce a includere il resto della scena, sembra normale quel fischio del vento misto a musica che si sente arrivare da lontano.

mercoledì 5 gennaio 2011

Questa rosa è per lei.


La prima volta che lo vide fu al mattino presto di un giorno feriale di novembre. Il freddo le pungeva le gambe attraverso il collant, e col fiato faceva nuvolette. Lo notò soltanto di sfuggita, grazie a un particolare: il bocciolo di rosa rossa a stelo lungo che stringeva tra le dita. Era un signore di una certa età, come si suole dire, distinto e vestito con gusto. Il lungo paltò grigio scuro dal taglio perfetto scendeva fin sotto il ginocchio, rallegrato da una sciarpa di lana pettinata dello stesso colore della rosa. Un Borsalino completava il gradevole insieme. Non si guardava intorno, sembrava piuttosto affrettarsi senza scomporsi lungo un percorso ben preciso, che niente e nessuno avrebbe saputo distrarre.
«Le famose rose di novembre!» bofonchiò lei entrando in macchina, piegando la bocca nell’ormai consueta smorfia di cinismo. Smise di pensarci non appena inserite le chiavi nel quadro.
Il giorno dopo pioveva. L’ombrello aperto e retto a protezione del vento le mostrava il solo desolante spettacolo dei suoi stivali sciaguattanti nella melma delle pozzanghere. Entrando in macchina afferrò lo specchietto retrovisore e lo regolò per controllare il trucco. Un bagliore rosso richiamò la sua attenzione: di nuovo quell’uomo, di nuovo una rosa rossa tra le dita. Lei si soffermò un po’ di più, questa volta, senza pensieri particolari, più che altro inglobando quella visione nella miriade di cose da fare quel giorno. E quella pioggia le avrebbe rese tutte più complicate. Lui camminava con l’aria concentrata del giorno prima, la rosa dritta come un fuso dava un tocco di indefinibile delicatezza alla figura un po’ appesantita dagli anni.
L’avvistamento si ripeté per una settimana ancora prima che lei dichiarasse a se stessa di esserne incuriosita.
Un sabato mattina il freddo sole novembrino splendeva ancora pallido in cielo quando lei fece capolino dal portone, imbacuccata fino a sembrare in incognito. Voltò la testa nella direzione in cui era sicura di trovarlo. Egli era lì, infatti: paltò grigio scuro, sciarpa rossa e Borsalino; rosa vermiglia tra le dita. Lo sguardo di lei si intenerì. Stringendosi nel piumino si avviò verso la bottega del pane sotto casa sua; aprì la porta, e dei campanellini tintinnarono richiamando la ciarliera padrona del negozio dal laboratorio sul retro.
«Ma buondì! Mattiniera più del solito!»
«Un po’» rispose lei, schiva.
«Cosa ti do?»
«Del pane che sia buono anche domani e per favore questa pizza bianca croccante.»
«Evualà! La pizza è appena fatta! Sentirai…!»
«Grazie, sarà ottima…Mi dici quanto fa?»
«Sono 4 euro in tutto. Vuoi una borsina?»
«Sì, grazie.»
Aprendo i lembi del sacchetto, la panettiera fissò per un momento lo sguardo al di là dalla vetrina. Si fermò due secondi prima di emettere un sospiro:
«Poveretto! Neanche oggi gli è andata bene!»
Lei si voltò per capire meglio e vide il signore della rosa ripercorrere la stessa strada ma di ritorno, a testa bassa; con una mano reggeva lo stelo del suo fiore e con l’altra ne proteggeva i petali come per ripararli da un pericolo.
«Lo conosci?» chiese alla venditrice sperando non trapelasse l’interesse che provava a saperne di più.
«No, conoscerlo no. Però so chi è.»
Se mai la panettiera avesse avuto bisogno di un incoraggiamento per cominciare il suo racconto, lei glielo fornì con uno sguardo.
«Percorre questa strada da una decina di giorni, sempre in quella direzione e sempre di mattino presto. Dopo neanche mezz’ora, lo vedi tornare indietro a testa bassa. E sai perché?»
«No.»
«Io sì. Una mia cliente mi racconta quello che noi non riusciamo a vedere. La passeggiata quotidiana del signore si interrompe ogni giorno davanti a un portone. Lui si rassetta il cappello, fa “ehm, ehm” con la gola e suona appena uno dei campanelli. Risponde una donna, “chi è?” e lui dice: “questa rosa è per lei.” La mia cliente dice che nella voce ha una specie di sorriso tenero. Ma la donna al citofono chiude la comunicazione senza rispondere. Dopo qualche minuto il portone si apre e spunta una bella bimba con i capelli rossi, che avrà cinque o sei anni. Guarda in su e dice al signore: “la nonna dice che siete troppo vecchi e di non tornare più, per favore.” Eh. E lui se ne torna indietro mogio mogio come l’hai visto poco fa.»
«Oh! Che storia commovente!» esclamò lei stupita della propria emozione.
«C’è di più. Hai notato la rosa?»
«Certo, ogni giorno ne ha una.»
«No, non è che ogni giorno ne ha una, ogni giorno ha quella. È sempre la stessa. Non te n’eri accorta?»
«Beh, no. Ma com’è possibile? Dovrebbe essere appassita, ormai!»
«È quello che dico io! Invece no, sta solo sbocciando piano piano.»
La panettiera alzò le spalle con un mezzo sorriso, porse il sacchetto a lei che pagò e uscì, soprappensiero. Per tutto il giorno sperò che quell’amore potesse nascere sul serio, e che il signore della rosa potesse vivere felice accanto alla sua amata.
Per i giorni che seguirono, oltre ad accertarsi ogni mattina del passaggio del signore con la rosa, lei prese l’abitudine di affacciarsi velocemente all’ingresso della panetteria, di ritorno dal suo giro di commissioni, e rivolgere un cenno interrogativo alla panettiera. E ogni giorno questa scuoteva la testa con aria dispiaciuta. Lei non parlò in famiglia del signore della rosa, sapeva di non essere capace di trasmettere l’emozione che quella storia meritava di trasmettere, e preferiva tacere.
Era domenica mattina quando accadde: lei camminava verso casa insieme al suo compagno, dopo aver fatto colazione in un bar lì vicino. Non se ne accorse subito, ma appena messa a fuoco l’immagine, una vampata di calore le salì alle guance: dall’altra parte della strada veniva una coppia, camminando piano. Il cappello di lui non era sufficiente a celare l’espressione radiosa dei suoi occhi. Fiduciosamente appoggiata al suo braccio, avanzava una signora con i capelli di un rosso ormai sbiadito, dalla figura delicata ed elegante,  con l’aria timida di chi teme il giudizio degli altri, ma anche con un sorriso lieve e incredulo. Non parlavano, soltanto si gettavano uno sguardo l’un l’altra, di tanto in tanto. Lei reggeva una bellissima, rigogliosa rosa rossa vicino al cuore. Tutti i suoi petali erano sbocciati.

Somewhere else

Il suo sogno ricorrente non era soltanto un cosa ma prima di tutto un dove: una stanza, per la precisione. Vi si accedeva scendendo tre scalini. Non era una stanza molto grande, anzi, somigliava più a un luogo dove rifugiarsi quando il bisogno di stare un po’ da soli si faceva impellente. Interamente tappezzata di carta da parati in seta color malva, con minuscoli fiorellini tra il rosa e il beige, era arredata con una libreria zeppa di libri, posta a lato dell’unica, grande finestra di foggia antica, in legno verniciato di bianco e con gli scuri aperti. Sotto la finestra, un tavolino sul quale altri libri trovavano posto e una poltrona dall’aspetto comodo e avvolgente, ricoperta di tessuto a righe larghe, bordeaux e beige. Addossato alla parete di fronte, uno scrittoio con la ribalta aperta svelava carta da scrittura, penne e un telefono nero in bachelite. Un tavolo rotondo con quattro sedie completava il resto della stanza. Questa la descrizione del suo aspetto.
La sensazione che il sogno le lasciava, ogni volta, era di ritorno a casa, di sicurezza e calore; l’atmosfera della stanza le regalava un profumo di bentornata, voglia di sedersi a prendere un thè caldo e leggere un libro.
Lei aveva associato questo ambiente alla nonna materna, amatissima. Senza un motivo reale, in fondo, poiché l’antica casa dove la nonna era vissuta non aveva una stanza come quella. E allora? Quando aveva già abitato quel posto? Chi aveva già chiamato da quel telefono? La carta dello scrittoio era servita a scrivere lettere? E a chi? E in quale tempo tutto ciò era accaduto? C’era anche un gatto? Una sensazione ineffabile le diceva che sì, il gatto c’era.