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mercoledì 23 marzo 2011

In mille pezzi


E non è stato per cattiveria che nessuno se n’è accorto…
Se soltanto ci fosse il tempo di soffermarsi sulle cose, di prestare loro attenzione, anche quei mille pezzettini di carta sparsi sul marciapiede di fronte alla scuola elementare potrebbero raccontare la loro vicenda triste:
“Non siamo nati come pezzetti piccoli piccoli; fino a ieri sera eravamo un bel foglio unico di carta da lettere profumata, e se ci guardavi in controluce ti saresti stupito per l’eleganza della nostra filigrana! Guardaci adesso, invece! Non sappiamo più quanti piedi, quante zampe ci abbiano calpestato! Che maleducazione, che indecenza! Mai un foglio come quello che siamo stati fu accolto con pari sufficienza e trattato con pari perfidia, diamine! Permettici di raccontarti la nostra breve storia dall’inizio, sii gentile; così, almeno, il nostro sacrificio non sarà stato interamente vano.
Ieri sera ce ne stavamo comodi, come dicevo, tutti riuniti in un solo foglio, insieme agli altri compagni e alle signorine buste, nel cassetto dello scrittoio della mamma. All’improvviso dei passi si avvicinarono, qualcuno accese la lampada da lettura sul ripiano e aprì il cassetto. Per un attimo la luce ci infastidì. Subito la mano grassoccia di Simone s’infilò nel nostro ripostiglio e prese due o tre di noi, insieme a una signorina busta. Ci avvicinò al naso per annusare il nostro profumo e parve fermarsi un attimo a pensare, chissà a cosa, poi. Insomma, per farla breve, ci portò via tutto soddisfatto. Con fare guardingo, scivolando lungo i muri senza far rumore, riuscì a raggiungere la sua cameretta e chiudersi dentro. Forse era tardi, ricordo che pensammo, e a quell’ora avrebbe dovuto dormire invece di girellare per casa con intenzioni strambe. Comunque, ci posò con gentilezza – Simone è un bambino gentile – sul suo banco e impiegò qualche minuto a scegliere la penna adatta. Tirava su col naso e si asciugava il moccio con la manica del pigiama. Questo, alla mamma, non sarebbe piaciuto per nulla. Finalmente trovò la penna che cercava. Spostò con delicatezza la sedia per prendervi posto e cominciare a scrivere. Era più insicuro del solito, si tormentava un sopracciglio pizzicandolo e non si decideva a cominciare. A un certo punto sembrò che fosse pronto, posò la punta della penna sul foglio ma dopo una leggera pressione si fermò esclamando: «No!» Rimase ancora un momento a pensare. A chi mai dovrà scrivere? Ce lo chiedevamo tutti, ma cosa può fare un foglio di carta in questi casi, se non pazientare? E noi pazientammo. Simone tirò un sospiro, allora, e si piegò su di noi apparentemente fermo nel suo intento. Infatti:

Carissima Giada,
ti scrivo questa lettera perché volevo dirti che per me tu sei la bambina più bella della classe seconda A, e perché vorrei chiederti se vuoi essere la mia fidanzata e se vuoi fare ginnastica insieme a me giovedì alla terza ora. In cambio io posso aiutarti in matematica, che ho capito che non sei tanto brava. Con amore, Simone.

Ci credi se ti diciamo che eravamo tutti commossi? Certo, se avessimo lacrimato addio inchiostro! E quindi trattenemmo l’emozione e ci piegammo docili sotto le dita di Simone. Fummo riposti in una signorina busta un po’ stupidina, dobbiamo dire con rammarico. Voglio intendere che non c’è alcun bisogno di agitarsi ed emettere risolini nervosi soltanto perché qualcuno ti scrive sopra un indirizzo! E cosa dovremmo dire noi fogli, allora?
Simone ci infilò nella sua cartella e andò finalmente a coricarsi. A giudicare dal suo girarsi e rigirarsi, non credo abbia dormito molto! Il giorno dopo, cioè questa mattina, è arrivato a scuola come sempre in orario, con i capelli pettinati ordinatamente e il viso pulito. Noi siamo rimasti nascosti fino al momento della ricreazione, quando la mano sudaticcia del bambino ci ha tirati fuori dalla cartella. Chissà se il nostro profumo avrebbe resistito a questo! Correndo come un pazzo si è diretto verso il cortile, urtando un paio di bambine che hanno urlato neanche le avesse gettate per terra. Uscendo si è fatto schermo dal sole con la mano libera, mentre si guardava in giro in cerca di Giada. Eccola. Non era da sola, però: due compagne stavano dividendo la merenda con lei. Simone era indeciso, si sentiva, ma ormai il tempo stringeva e doveva assolutamente consegnarci. Ha messo le ali ai piedi, allora, e spuntando davanti al gruppetto all’improvviso deve anche averle spaventate. Ha farfugliato qualcosa di incomprensibile e ci ha lasciati nelle mani di una bimba proprio bella. Per somma sfortuna, la campanella ha richiamato tutti in classe proprio in quell’istante e ci siamo dovuti accontentare, per il momento, semplicemente di cambiare zaino. Devo essere sincero, non stavamo più nelle fibre! Sì, in fin dei conti siamo nati per questo! È già emozionante raccogliere le confidenze di chi ci scrive addosso…ma, sul serio, guardare in faccia il loro destinatario è un’esperienza che ha del memorabile! Non ci crederete, ma ci sono alcuni di noi che restano custoditi come tesori per anni e anni! Un mio conoscente mi ha raccontato di lettere scritte talmente tanti anni fa, e da gente talmente importante, che oggi sono protette da lastre di vetro ed esibite nei musei! Vi pare poco? E noi stavamo ad aspettare che finisse l’orario di scuola per goderci la reazione di Giada. Alla fine la benedetta campanella ha dato il suo trillo allegro e tutti i bambini sono corsi fuori rumorosi. Simone ha perso un po’ di tempo a sistemare i libri, evidentemente, perché ci ha messo di più a uscire. Noi abbiamo attraversato la strada insieme a Giada e le sue amichette e siamo stati letti esattamente alle ore 13,34. Non potevamo credere a ciò che abbiamo visto! La bambina ha aperto la signorina busta senza neanche annusarla, e lasciamo perdere l’espressione offesa di quest’ultima…poi, con una smorfia che sembrava dire “Ma tutte a me devono capitare?”  ha tirato fuori il superbo foglio che eravamo e ha letto il pensiero delicato di Simone. A questo punto, incredibile!, è scoppiata a ridere e ha riletto tutto ad alta voce, cosicché anche le sue amichette potessero partecipare alla sua ilarità. Mille linguacce hanno fatto, quelle tre stupidine, mentre ci stracciavano in mille pezzi! Mille volte hanno cantilenato “Simone ciccione grassone!” mentre ci spargevano sul selciato per correre via ridendo in modo davvero sguaiato. Io ho fatto in tempo a vedere Simone dall’altra parte della strada, prima di essere calpestato dal primo piedone della giornata, e ho capito che non eravamo stati gli unici a esser fatti in mille pezzi. A volte, i bambini sanno essere proprio crudeli.”

giovedì 10 febbraio 2011

Antiques

«Buongiorno signora, posso dare uno sguardo? Devo fare un regalo a mia madre e…» sorriso.
«Prego, prego! Faccia pure.»
La signora è gentile e disponibile, e anche un po’ impolverata. Perfetta per la parte.
Non sembra, ma entrare in un negozio di antiquariato sapendo per certo che non si acquisterà nulla richiede una determinata dose di faccia tosta. Non fosse altro che per quel campanello da suonare, che da subito presuppone un’interazione con chi nel negozio lavora.
La pietosa, piccola bugia del regalo alla mamma spalanca dunque le porte su quel mare di oggetti esposti tutti insieme ma provenienti ognuno da chissà quando. È proprio quello che serve oggi, perdersi un po’ nel passato di qualcuno mai conosciuto e mai esistito. Di teca in teca, di scaffale in ripiano, lei prende appunti con la mente e sul suo Moleskine, ben sapendo che la cosa può apparire strana, e di conseguenza pronta a sfoderare la scorta di gentilezza destinata alle grandi occasioni.
La sua penna traccia geroglifici che lei sola sarà in grado di decifrare, una volta a casa e al sicuro.

Cavalluccio marino, XX secolo.
Una pittoresca accozzaglia di smalti e lustrini fa bella mostra di sé, dritto e impettito, sul suo piedistallo tempestato di azzurr0. Il corpo è interamente dorato, le piccole pinne rilucono di verde e arancio. Gli occhi sono minuscoli rubini rossi, e danno alla creatura quel tocco di pessimo gusto che in un simile frangente non può che calzare a pennello. Si tratta dell’unico superstite tra gli esemplari di bomboniera del fastoso matrimonio Gotti-Baraldi, celebrato il 5 giugno 1905 e felicemente protrattosi fino alle ore nove del 20 dicembre 1948, momento in cui la seconda parte del binomio si accorse che la prima non si sarebbe più svegliata dal suo sonno notturno.

Alzata per torta, XX secolo.
Cristallo bruno, linee eleganti ed essenziali, dimensioni non troppo grandi. Perfetta per sostenere le deliziose torte, famose in tutto il quartiere, con cui gli ospiti del signor Alfredo accompagnavano il tè del pomeriggio, durante la seconda metà degli anni ’30. All’asserzione: «Squisita!» seguiva quasi sempre la domanda: «Posso chiedervi chi è il pasticcere?» Era questo il momento preferito dal signor Alfredo, il quale, assumendo una postura ben eretta, dichiarava che sia l’aspetto che il sapore del dolce erano sue responsabilità. Lo stupore non tardava mai a dipingersi sui volti dei fortunati fruitori della cremosa delizia, sebbene, ahimè, al piacere del palato si unisse subdolo un dubbio atroce sulla virilità del provetto pasticcere. Se il signor Alfredo si fosse deciso una buona volta a dichiararsi alla signorina Emma, tutti i dubbi sarebbero stati fugati, ed egli avrebbe potuto dedicarsi alla passione dolciaria senza che questo minasse la sua reputazione. Ma non lo fece mai.

Lampada con paralume in pietra saponaria rosa, XIX secolo.
Il portalampada è un fascio di giunchi delicati, che si attorcigliano morbidi lasciandosi sfuggire qui e là una fogliolina. Il paralume ricorda l’ombrello di una medusa, rosa. Uno degli oggetti più affascinanti dell’intera esposizione, la lampada creata nel 1898, ha avuto vita lunga e felice sulla maestosa scrivania in ebano del senatore R., illuminando centinaia di importantissime firme apposte su altrettanti importantissimi documenti. Grazie alla lampada, le firme del senatore R. si distinsero sempre per precisione e profusione di svolazzi.

Soldatini di legno, XX secolo.
Alti circa quaranta centimetri, presidiano lo scaffale più alto, a sinistra della porta. Sono in tre, dalle uniformi coloratissime, gli occhi attenti e i nasi tondi. La sciabola d’ordinanza infilata nel fodero secondo il Regolamento, tutti e tre prendono molto sul serio il loro compito di protettori dell’ordine e si mormora abbiano chiesto espressamente alla proprietaria del negozio di poter occupare la loro attuale posizione, che permette un’ottima visuale su chi si aggira tra i preziosi oggetti. Ognuno ricorda ancora gli anni tra il 1921 e il 1925, quando il loro numero era di gran lunga superiore, un vero reggimento, ai comandi del Generale Riccardo, impavido condottiero classe 1910.

Scatola in tartaruga con cameo, XIX secolo.
Il profilo del cameo poggia su velluto scuro, risaltando per grazia ed eleganza; la scatola è piccola e preziosa. Ha accompagnato la baronessa Tratti negli ultimi cinque anni della sua vita su questa terra, fungendo da custodia segreta e discreta alle sue pastiglie per la cura dell’argento, causa silente e strisciante del malessere che doveva condurla per mano alla tomba. Le cerniere del piccolo scrigno hanno dato prova di incrollabile resistenza, rispondendo sempre a dovere alle sollecitazioni della baronessa: tre volte al giorno, dopo i pasti principali. Gli svenimenti della donna, la cui insorgenza era stata erroneamente attribuita al decesso dell’adorato barboncino diciassettenne, si erano di lì a poco distinti per frequenza. Un crescente stato di debolezza le aveva reso impossibile alzarsi dal letto e condurre una vita normale. Il suo ultimo, lucidissimo pensiero era andato alla sua scatola di tartaruga, o meglio, al contenuto: «…e sarebbero questi i portentosi benefici della cura…?»

Ragno e Scarabeo fossilizzati in Ambra, XIX secolo.
Rossiccio il ragno, verde smeraldo e ricco di bagliori lo scarabeo, sembrano lì da ieri. Perfettamente conservati in una goccia di ambra trasparente. Il dottor Krun, esimio entomologo di origini macedoni, aveva da solo deciso che per il primo fosse giunto il momento di smetterla con la caccia alle mosche, e che il secondo avesse svolazzato per i prati a sufficienza. Sicuro in cuor suo di compiere un gesto encomiabile, aveva racchiuso i due gioielli in una scatolina di velluto per regalarli alla cara Anne, nel giorno precedente alle loro nozze. La poveretta non era riuscita a trattenere un garbato urlo di terrore, e il grave malore preteso l’indomani aveva lasciato il dottor Krun solo e impalato davanti all’altare, a chiedersi dove avesse sbagliato.  

mercoledì 2 febbraio 2011

9 novembre 1943


«Papà, stanno arrivando!
Li sentiamo sulla via, sono arrabbiati e sembrano in tanti. La mamma dice di stare giù e zitte, io ho perfino paura che sentano il rumore del lapis sulla carta! Rumore di vetri rotti e lamenti di paura. Ho paura anch’io. Scusami la calligrafia brutta, ma è buio e tremo per il freddo. Non lo so, dove ci porteranno. Spero che troverai questo biglietto. La mamma piange sotto voce e tiene gli occhi chiusi forte.
Si avvicinano.
Un bacio d’infinito amore, papà. Chissà se un giorno ci rivedremo!

Ti lascio le chiavi al solito posto.

Libera»

giovedì 20 gennaio 2011

Mattoni rossi


Un’ultima passata di straccio sull’uscio, la gonna sollevata dall’orlo e fermata alla cintura perché non s’inzuppi. E la targa d’ottone! Ancora una mano di lucido, è meglio. Tutto dev’essere perfetto.
È il 1900 e la festa d’inaugurazione della casa sarà ricordata per anni. La consegna è avvenuta da qualche settimana, e la famiglia che l’abiterà ne ha preso possesso da soli tre giorni, il tempo necessario per raggiungere la «Nuova Arteria» dalla campagna. Non è stato facile convincere nonno e nonna a lasciare l’antica dimora, ancora di meno lo è stato staccare dai ganci in cantina tutti i salumi che nonno cura come fossero figlioli suoi. Spiegare a nonna che intravedere la casa più vicina a un chilometro non vuol dire che da lì la vedranno mentre si toglie i vestiti nel segreto della camera da letto, poi, è un’incombenza che è valsa la pesca del bastoncino più corto. Quanto è bella, però, casa nuova! I mattoni rossi splendono al sole, le finestre sono profilate di bianco e le persiane di legno, nuovissime, hanno il colore caldo del legno scuro. Il capo famiglia non si risolve a rientrare, e passeggia avanti e indietro nel bel giardino, fermandosi di tanto in tanto ad ammirare la sua creatura con i pollici infilati nel taglio del panciotto, un sorriso fiero e una gamba un poco flessa sul ginocchio. È stata tutta opera sua. La decisione di lasciare la campagna per andare incontro al progresso, l’idea di investire sul futuro ha trovato d’accordo tutta la famiglia. Eccezion fatta per i nonni, ovvio. Per convincere nonna è stato necessario portare con sé il grande paiolo della polenta e tutte le galline, nessuna esclusa, e regalarle un angolo di giardino per allestirvi un nuovo pollaio; in quanto a nonno, già s’è parlato di tutti i suoi prosciutti e salami.

La festa comunque è stata memorabile! Tanti invitati entusiasti della nuova casa, un po’ d’invidia scaturiva dai loro complimenti troppo sorridenti. Le donne di casa si sono impegnate al massimo per essere bellissime, riuscendoci. La figlia più grande, diciotto anni, ha incontrato in quella occasione colui che sarebbe diventato suo marito e padre dei suoi quattro figli: tre maschi e una femmina.

Nel 1923 un avvenimento importante ha coinvolto la famiglia: è stata aggiunta la stanza da bagno alla casa. La rete fognaria di nuova concezione ha raggiunto anche l’Arteria Nuova, come chiamano quel pezzo di città, anche se città non è ancora, e finalmente papà ha potuto dare il via al progetto: s’è aggiunto alla pianta originaria della casa un nuovo corpo, che davvero la rovina un po’, ma è tanto comodo non doversi scapicollare fino in fondo al giardino, specialmente quando è inverno e il ghiaccio crocca sotto gli stivali!

Piano piano la casa ha cominciato a somigliare ai suoi abitanti; con lo scorrere degli anni entrare in cucina era sempre più come guardare in faccia la mamma; l’ordine assoluto richiama alla mente i suoi capelli castani con la scriminatura perfetta nel mezzo e raccolti in una crocchia rotonda che pare fatta col compasso, il profumo di pulito è il suo profumo di pulito. La stanza delle ragazze è tal quale a loro: ovunque nastri colorati per farsi belle, sottane lasciate penzolare con noncuranza sui pannelli del paravento; il modellino in compensato della locomotiva a vapore che il figlio maschio sta costruendo in camera sua ha occupato quasi tutto il pavimento e le urla di nonna si levano alte ogni qualvolta la povera, ostinata donna si presenta con una scopa per tentar di pulire quel macello. Papà trascorre la maggior parte delle sue giornate nello studio, e il suo aroma di acqua di colonia impregna piacevolmente i tessuti di poltrone e tende. Sentire la tosse di nonno, che spande lo stesso odoraccio del suo trinciato da pipa, provenire dalla cantina, è diventa col tempo una cosa normale. E per tanto tempo dopo la sua morte, la prima avvenuta in quel nucleo familiare, a tutti è sembrato di continuare a sentirla, anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di parlarne agli altri.

Forse succede in tutte le case che i primi abitanti lascino una traccia importante del loro passaggio, e chiunque venga dopo deve per forza assorbire un po’ delle vicende che in quelle stanze, in quei corridoi, si sono svolte.

Fino al 1950 la casa ha ospitato ben volentieri i discendenti della famiglia originaria, ma anche questi sono spariti nel tempo: qualcuno è fuggito durante la guerra, altri sono partiti subito dopo per cercare fortuna in paesi meno martoriati. La casa è sopravvissuta ai bombardamenti, i mattoni sono sempre rossi, forse un po’ sbiaditi ma neanche tanto. Le persiane sì, avrebbero bisogno di una bella riverniciata, e la nuova famiglia che la prende in affitto da un nipote dei proprietari precedenti pensa bene di dare una mano di verde squillante. Chissà che brivido di ribrezzo avrebbe causato quel colore a papà!

I nuovi occupanti decidono dapprima di rimuovere i ganci dal soffitto della cantina, ma ci ripensano: possono tornare utili per appendervi i mazzi di erbe aromatiche che la mamma coltiva con cura, raccoglie e fa seccare. In cucina trova spazio la lavatrice, nuovo portento della tecnica che fa risparmiare un sacco di tempo e fatica alla mamma; tempo e fatica che lei impiega per rammendare i calzini e pulire meglio il resto della casa. Questa famiglia ha una sola figlia, la quale non si sposerà a causa di un sentimento che lei stessa definisce “la chiamata” e che la porterà, con grande orgoglio da parte di mamma e papà, a prendere il velo appena possibile. A essere sinceri si è sparsa una voce nelle case vicine: c’è chi è pronto a giurare che la ragazza abbia ricevuto “la chiamata” direttamente dal calcinaccio che si è staccato piombandole sulla testa, capostipite di tutti i calcinacci della casa, poco prima di recarsi in chiesa in un’assolata domenica di giugno. Da suora, anni dopo, assisterà in quella casa la madre malata e rimasta sola; sarà uno dei periodi più tristi e la desolazione di quei giorni sembrerà inerpicarsi sui muri fino a ingiallirli.

Negli anni Settanta, verso la fine, la nuova famiglia che occupa la casa è benestante: ha comprato tutto, ristrutturato tutto e riempito le stanze di argenteria e oggetti costosi. Il giardino che aveva ospitato le galline di nonna non esiste più; la Nuova Arteria è stata inglobata nella città, le case vicine sono davvero vicine, ormai. L’incubo di nonna di essere spiata si è infine realizzato.
Una notte quella famiglia sperimenta la paura. Qualcuno riesce a entrare, stordire il cane con un bocconcino al sonnifero e arraffare quello che può. Il padrone di casa sentirà i rumori, verrà giù per vedere che sta succedendo e si farà bersaglio di un colpo di pistola alla gamba destra, esploso da uno dei ladri prima di fuggire. Tanto sangue, tanta paura che possano tornare, la sensazione di non essere più sicuri neanche in casa propria.

Perché si abbandona una casa? I motivi sono mille e nessuno. È il 1996, la casa sta per compiere i suoi primi cento anni, ma nessuno lo sa. Dopo una decina d’anni di abbandono, le porte si riaprono per ospitare un branco di giovani colorati, allegri, che giocano a preoccuparsi per le sorti di questo o quel paese dell’America Latina fumando erba e strimpellando chitarre. I capelli lunghi, i canti fino a notte fonda, tutto quel baccano vengono mal sopportati da chi abita lì accanto. Il centro sociale occupato è sgombrato dalla polizia dopo appena due mesi, e la casa rimane sola, vuota.

Oggi è ancora lì, pericolante. Qualche vetro è stato rotto, una vecchia persiana ha ceduto da un lato e così, sghemba, adorna tristemente una grande finestra. Il corpo che aveva costituito la novità della stanza da bagno in casa è scrostato, le scale che portano all’ingresso sono invase da erbacce e muschio.

Sul cancello hanno legato un avviso col fil di ferro: 
Casa vuota, non mettere posta e publicità. Con una “b”.